martedì 27 marzo 2012

Terra Di Nessuno + Megahera @ Fabrik, Cagliari (24 marzo 2012)

Terra Di NessunoFornace″.

E’ la parola che mi frulla in testa circa 50 minuti secchi prima che succeda il fatto. Ma ancora non lo sapevo. Me ne stavo li, appoggiato a un bel pilastro solido. Me ne stavo al Fabrik, per un concerto metal.
Mi pare suonassero i Terra Di Nessuno, o un nome del genere. E i Megahera.
Era una di quelle robe di Ichnos, una sorta di sindacato che tutela i gruppi da qualsiasi cosa intenda rapinarli/sottometterli/raggirarli/insultarli. Una di quelle robe che partono dal basso, dal popolo.
Dal ventre del popolo.
Irrequieti, incazzati, provocatori, quelli di Ichnos stanno mettendo a fuoco e fiamme una porzione della scena, quella che realmente si può definire underground.
E stanno ribaltando alcune delle regolette che fanno capo al rapporto gestore/organizzatore/musicisti.
Questo il punto di vista ideologico: ″No cash, no thrash″.
Dall’altro lato, quello fisico, ancora non riesco a dimenticare quella parola, ″fornace″.
Ma ancora non lo sapevo, me ne stavo li.
A un concerto come tanti.
Metal.
Terra Di Nessuno in una cacofonia da accordatura di strumenti post-soundcheck.
Pare che sia il ″PrimacheLelloparta tour″. Sono già alla ricerca di un nuovo cantante che provi ad imitare quella specie di suono (difficile definirlo urlo o grido) che fuoriesce da non si sa dove, una sorta di sgommata di Booster, la disperazione di un gatto maggiorenne che subisce una ceretta totale sulla schiena, lo stridio dei cassonetti che vengonodeportati alle cinque di mattina, in mezzo al niente. Ti si gela il sangue, ti si spacca l’obiettivo della reflex che porti in mano.
Il pubblico pirrese è sottoposto a un fon continuo. Chi ha il gel se ne frega. Io sono calvo e quindi mi sento esente, ma il pizzetto ha preso una brutta piega.
I Terra Di Nessuno sono una camionata ubriaca in faccia, una secchiata di melassa tenuta in un frigo nello scantinato per un mese, una soggettiva su un terteniese che scuoia un vitello mentre gli occhiali gli si imbrattano di viscida materia animale.
Quello che si genera immediatamente davanti a loro è solo la diretta conseguenza di ciò che hanno innescato.
L’iniziale odore di pelle di giubbotto, birra e un vago sentore di profumo femminile inizia a mutare in quello di mandria bovina. Sposti gli occhi dal trash furioso che imperversa, dall’orgoglioso piede sull’ampli di Andrea, il chitarrista che prima era bassista, e vedi a mezzo metro di distanza l’encierro di Pamplona.
Cioé, rischiavi di crepare.
E non te ne sei accorto perché eri perso incantato.
Il teschio tra i due tom della batteria era il monito che non avevo interpretato.
Mentre continuo a prendere appunti parte un assolo perlaceo, uno di quei baluginii spogliati di ogni suppellettile, la pelle lucidissima di un brufolo strangioso che esplode in un finale degno delle migliori sessioni di pulizia mattutina del viso. Una soddisfazione negli occhi di tutti, la presa di posizione, la constatazione che ora si possa uscire di casa a testa alta.
Con onore.
Il discendente planare tra un pezzo e l’altro porta a notare l’interazione, lo scambio, tra stage e off-stage, in un medium, Stefano, che riesce ad aizzare e ammansire la folla nei punti giusti, snodare l’asta del microfono quando occorre e gettarsi tra la folla per farsi anche lui i suoi zozzi lividi.
Questa è la storia sporca dei Terra Di Nessuno.
Nessun compromesso, nessuna posa manichea, diretto contatto con chi si gode il live. Su ″Milf, beer & thrash metal″, una sciabordata di asciugamani su chiappe nude, il manifesto.
I cori te li fanno i fan, un trans niente male si agita nella mandria, si da in pasto al braccio B del carcere di ″OZ″.
Il calore si taglia a fette, la fornace si palesa.
Si inizia a vedere quella specie di nebbiolina del deserto, più avanti l’oasi del bancone diPiero.
A quel punto la cover di ″Zobbia″: le corde zappate di Alessandro sotto luci cocenti, stelle filanti fosforescenti, Paolo dietro ai tamburi che pare un’intera orchestra di martelli pneumatici in nuoto sincronizzato, un canotto volante in assolo spiritato: la rappresentazione di quello che dovrebbe fare una bomboletta rossa su un muro bianco.
Intanto quelli che sono rimasti a casa guardano il documentario ″Quello che succede al piede umano che poga al Fabrik″, presentato da Piero Angela, in onda su RAI 1.
Terra Di Nessuno continua con derive tribal jazzate, hard rock cafone e Stefano che si toglie una canottiera dietro l’altra.
Infine il wall of death: mi nascondo dietro una tenda.
Facendo capolino mi arriva in faccia una schizzata da litro, mix di alcool, sudore, sangue, colla e denti.
Avevano fatto una finta partenza.
Per terra diversi corpi inermi, immolatisi per la gloria di Addy Ardau, combattente e bassista alle prime armi. Sciamano assente.
Quando i Megahera prendono posto, lo scenario è molto simile al set di ″The human centipede – Full sequence″ o di qualche film della Troma.
La parola che mi viene in mente adesso muta in da ″fornace″ in ″olezzo″, campionario di ogni putrescenza umana.
Mi potrei laureare in medicina: anatomia l’ho passato.
Non ho il tempo di accorgermi che la mia penna è partita, sostituita da una tibia, presumibilmente umana, che gli superstiti si riaccendono.
Quelli a terra, morti, si rianimano manco avessero un topo in culo assieme al trans, che vola roteante e semi-cannibalizzato.
Il pesante accento sassarese di Mario Marras è l’unica cosa distinguibile. Il resto è scalpitante, poderoso, esagitato NWOBHM.
L’estetica iconoclasta di questo quartetto porta dritti dritti all’era d’oro dell’heavy metal, quando lo scambio tutto anglosassone tra USA e Inghilterra era una lotta di acerrimi nemici, ma con rispetto.
I Megahera possono sembrare un filo stagionati, ma in senso buono. La polvere gli si toglie di dosso non appena alzano il volume dei potenziometri.
Lo sfintere del metal isolano.
La vecchia guardia.
Come Ramones proiettati in tiratone wah, doppia cassa millimetrata e basso frenetico.
Mentre Andrea cavalca impetuoso il trans, parte l’operazione nostalgia: le cover sono scelte, acclamate, pestatissime.
Scheggie di zanne partano sul soffitto.
Più che distorsioni le chiamerei distillati di HC metal.
E mentre mi faccio l’ultima sorsata di malvasia di don Melis, le tende si chiudono.
Tutto tace di nuovo.
Resta impressa nella mente la diapositiva della spaghettata di braccia levate in aria.
I pugni chiusi in segno di vittoria.
In attesa della prossima, welcome back heavy metal.
© Foto di Paola Corrias

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