Questa è una recensione truffa, un reportage mancato, un aborto di descrizione obiettiva. Questo è il modo in cui non si devono fare le cose, quello di sgusciarsela. La menzogna. O la semi-menzogna. A chi può far mai male una mezza bugia? D'accordo, sono arrivato in ritardo, una mancanza, l'inutilità della puntualità. Ma, come il più capace dei fotografi, il più felino degli spadaccini, proverò lo stesso a fare questo lavoro insidioso/totale/famelico. Proverò a essere arrivato a metà concerto e a dirvi ugualmente come è stato: Akron/Family con Kid Millions degli Oneida alla batteria. HereIStay e Interno 24. Tutti insieme, pubblico pressato come sardine in una scatoletta, all'Hancock.

Chi è preso bene: occhi chiusi a negare tutto quello che non sia questo splendido terzetto di geniacci americani. La schiavitù del piacere. Tuffarsi in un magmatico respiro che conduce dove il piede non tocca. La follia dell'apnea. Ridendo, condividendo il canto, questo senso di pace, eppure animazione vitale. Prendere il microfono, tutti, in condivisione. Inneggiare una melodia. Quell'ascolto in dormiveglia che il fotografo Alessandro Murgia ha saputo delineare alla perfezione.
Chi è preso male: fa capo a quel sistema d'ascolto, tutto intellettuale, che ragiona secondo rigidi schemi selettivi. Loro come suonano, la capacità di prendere in mano qualsiasi strumento, farlo proprio ed esprimercisi in piena coscienza, l'interpretazione dei generi, tutta di estrazione statunitense, il completo miscelarsi, seppur con picchi di egocentricità Velvet Underground ("White light/White heat") e per nulla Sonic Youth ("Daydream nation").


La vocalità, prisma del rimanente duo, spalleggiato da un Kid Millions quantomai eclettico e sempre a cavallo del suo rango, è una sorpresa che dal vivo esplode in mille coriandoli. Immediata, acustica, palpabile. Possono fare a meno di tutto, meno che di se stessi. Perché lo strumento in fondo è solo il mezzo più semplice con cui comunicare un messaggio. E le introspezioni etnomusicali, virate savanesche, afro-colonial (nominerei un Paul Simon) sono il simbolo di come tutta la tradizione da cui provengono, seppur basilare, possa essere spiegazzata, tirata e distorta. Malleabile a proprio piacere. In pura, bruna materia cosmica.
Un solo fiume, milioni di letti. Una testimonianza. Una porzione. Una beatitudine. Una truffa. Una mancanza. Un ritardo. Ma con cura e tanto amore.
Scaletta:
"Gravelly mountains of the moon"
"I came I saw"
"I know what"
"So it goes"
"Colors/City waters"
"Ramblin"
"Sheets"
"Till the morning"
"Vox"
"Another sky"
"Boundless" "Crix"
"I came I saw"
"I know what"
"So it goes"
"Colors/City waters"
"Ramblin"
"Sheets"
"Till the morning"
"Vox"
"Another sky"
"Boundless" "Crix"
Testo di Alessandro Pilia
© Foto di Paola Corrias
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