La terza giornata di Quit Festival inizia a notte fonda, tutta al Muzak, e tutta sotto la fine, lenta, pioggia di aprile.
Dannazione.
Privi di ombrello, siamo ospitati da Lello a Castello.
Una birretta veloce, due risate con signor Carlo, una cricchetta suona Inti-Illimani con un’acustica che si regge a malapena.
Passano mezze ore, come dire, spensierate.
Poi di nuovo pioggia, breve tratto tra le viuzze del barrio, e di nuovo in via Stretta.
Più gente li fuori, non piove più.
Mostro la tessera e dentro l’aria è dura ma fresca. Sguardo in su, ventilatori rigorosamente bianchi sventolano senza sosta tutto quello che gli capita a tiro. Mentre mi accarezzo la pancia guardo Digi G’Alessio, uomo della serata, che si accarezza la pancia e conversa con un tizio. Calvo e barba, espressione (senza aggettivo), troppo tranquillo. Come Kimbo Slice.
Digi salta dietro il banco, si abbassa sulla mensola del computer.
I volumi si alzano leggermente.
E’ il set.
Black beat/old school, da qualche parte ho un disco di Snap!, ma è di mio zio. E’ di quando un impiegato non si vergognava di nulla.
C’è una roba in giro che sa di quei nomi tipo Ice-qualcosa.
Il concetto di suoni passati non esiste più.
C’è un ripescaggio completo e totale, che non va più indietro solo alla propria infanzia, come è classico in tutto lo scorso secolo. Invece si estende all’intero corso vitale, e oltre. Peschi anche musica che non è che ti si addice proprio, o che va al di là della trentina che hai, oppure all’altro giorno, in cui ti hanno fatto sentire, che so, i Cassius.
Per cui qualcosa mi suona familiare. Per forza. E agito la testa, come tutti.
Il bpm è alto.
Cioé non mi aspettavo una cosa di questa pompatura: è talmente dancennivoro che ci sono tipe in canottiera e capelli gonfi che si sbracciano euforiche.
Si sbraccia anche Digi, in stile orangutan.
Si toglie la felpa e sotto c’è un altro Digi, nuovissimo.
Esplode direttamente dalla regia, e si capisce che è così magro. Tutte le videocassette di Cindy Crawford non basterebbero a renderlo così scattante.
E inzio a pensare che tutti, ma proprio tutti i producer, quando toccano i potenziometri, poi staccano le dita come avessero toccato la griglia di un fornello bollente. Avete notato? Sfiora e salta via, sfiora e salta via. Inizierei a scrivere un saggio sulle differenze dei vari gesti, ma interviene Arrogalla per un saluto, e abbandono l’impresa.
Incursioni Bollywood si fanno largo quando entra un indiano a vendere rose. Si vede che si sente a casa.
Il nostro è un sentirsi a casa di riflesso, per via di Madlib e di “Beat Konducta“, volendo anche di Panjabi MC; il suo un sentimento vero, fangotico, mentre Bazooka zacca uomini che danzano piacioni e donne che fanno lo stesso, meno convinte della situazione.
Stacco nel dub, con trombe da tir.
Digi frulla bene i primi Daft Punk, Benassi e Lee Scratch Perry, ma cosa significa?
E’ roba che in un paesino della Trexenta spopolerebbe.
E’ roba che ci starebbe ne “Lacapagira“. Da periferia.
I fischi che si levano ai ventilatori bianchi mi danno ragione.
Anche Crisa sta fischiando.
Push your hands up: flipperone miracolato, la riscossa de su cuccongiu, come far ballare un formicaio, era dai tempi della palestra che non sentivo certi sudori.
Harry Belafonte: è stato lui a chiamare le forze dell’ordine, ne sono sicuro.
Mi spiego, sono arrivati i carabinieri, saltano fuori parole come “SIAE”, e il concerto è finito, ma un buon 50% al Muzak balla ancora come se nulla fosse successo. E’ l’onda lunga delle infusioni di Digi.
Quando capisco che proprio non ci sono più speranze, passo dal Mordiroccia, a guardare la sua dotazione.
Korg ElecTribe ESX1SD, Roland SP404, un mixer Berhinger (si, è vero) è un controller…che cos’è Digi?
“Nammerda!“
Dopo quest’ultima dichiarazione il nostro viene prelevato, ammanettato, sterilizzato e deportato dai bersaglieri della Trexenta.
Ciao bro, ci vediamo quando ti danno la condizionale.
Testo di Alessandro Pilia
Foto di Paola Corrias
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