Foto di Valeria Pierini |
Queste righe sul concerto dei newyorkesi Ancient Sky sono uscite con fatica, come se l’inchiostro incastrato negli spazi risultasse inadeguato a incanalare un suono che per densità e continuità ha più parentela con il silenzio. La loro performance, di un’intensità totalizzante, rischia di finire depotenziata dall’oggettività della cronaca ma, allo stesso tempo, esige di trovare traduzione nella forma analitica di queste parole; parole che hanno il compito, per quanto possibile, di trasferire alla memoria discorsiva il flusso ininterrotto dell’esperienza.
All’entusiasmo che precede la
serata contribuisce forse anche l’attesa ormai quasi ostinata, nutrita nel mese
trascorso dalla data perugina (esordio del tour italiano), improvvisamente e
clamorosamente e annullata per circostanze indipendenti dai ragazzi di
Brooklyn.
Dalle prime note fino
all’epilogo, in un’ora e mezza avidamente ingoiata come un bicchiere
d’assenzio, il nucleo rimane sempre il suono nella sua espressione più densa e
impenetrabile, dentro la trama in divenire delle chitarre siderali e delle
percussioni ossessive che le rincorrono.
Foto di Valeria Pierini |
La trance wave californiana ha
travalicato qualche decennio e cambiato sponda, accorciando le distanze con i
viaggi interstellari di Albione. Se le bordate chitarristiche echeggiano gli
immensi Savage Republic e la ritmica ipnotica recupera le suggestioni dei 17
Pygmies, la purezza sonora dell’originaria matrice psichedelica inglese
allontana lo spettro di ogni residuo wave. Quanto c’è di evocativo è tutto
dovuto alla limpidezza e insieme alla corposità dell’esecuzione, che trova inaspettata consonanza nell’impatto
visivo quasi preraffaellita dei quattro: ciò a cui siamo chiamati ad assistere
è la manifestazione e testimonianza della necessità di una nuova naturalezza
nella complessità, di una spontaneità che non scade in spontaneismo ma si
sorregge sull’impalcatura di una rara ricercatezza nei suoni.
Sporchi al punto giusto e senza
alcuna velleità intellettualistica, non si risparmiano di fronte a un pubblico
ipnotizzato in un’ammirazione radicale; le note sgorgano dal palco come un
fenomeno atmosferico che inonda gli astanti e li attira senza dare tregua o
consentire distrazioni.
Il finale che si dispiega in un
lunghissimo cantato quasi gilmouriano, come un’invocazione scaturita da altre
distanze, sembra voler trascinare il magma sonoro ben oltre le pareti della
suburbana location aretina: non c’è conclusione, solo un propagarsi sempre più
lontano e indistinto dell’ininterrotto diluvio di note.
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