Cosa possono fare due mani, una
gamba, un’ugola polverosa e un cervo-caprone.
Gianni ovvero TBAY si incunea tra
i vinili schierati in un orario decisamente inusuale per le performance
italiche, a testimonianza che il crepuscolo invernale è il momento perfetto per
fare selvaggio handclapping sul suo country imbrattato di blues.
Quando adagio il mio posteriore
sul pavimento e la schiena sullo scaffale della black music, reparto
compilation, la sensazione è di trovarmi al famigerato crocicchio di Robert
Johnson, al cui cospetto non si presenta però il diavolo ma Merle Haggard già
uscito da San Quentin. L’occasione è la presentazione del nuovo EP, ma tutto
suona classico e familiare e insieme immediatamente trascinante.
La sei corde si impegna in
fraseggi sorprendentemente bianchi, mettendo in gioco sonorità graffianti e
scarne degne di un Dave Alvin rivestito di umiltà e schiettezza, evidenti non
solo nell’approccio umano ma soprattutto nell’attitudine musicale. Viene la
tentazione di chiamare in causa l’abusata definizione di “musica di frontiera”,
fuorviante e riduttiva nel caso di TBAY, a meno che non si intenda individuare
un’inedita frontiera tra la piantagione di cotone e la prateria.
L’entusiasmo che regala il Nostro
si deve soprattutto alla capacità di conciliare l’enormità della tradizione
americana nei suoi episodi migliori e più emblematici con l’urgenza espressiva
che ti aspetteresti dalle presunte avanguardie, nella lotta indefessa di tutto
ciò che è “root” nella sua accezione migliore per riaffermarsi come vitale e
pulsante, ben oltre l’eredità dei grandi padri fondatori. E la resurrezione del
songwriting tradizionale passa inevitabilmente per l’esecuzione, per l’impegno
del musicista in un’ora debordante; senza polvere, sudore e fiumi di alcol,
senza il contributo del pubblico piacevolmente sguaiato e degno di un saloon si
rimarrebbe ancorati al revival di maniera. Ma è un rischio che con TBAY non si
corre: dalla scrittura alla performance, tutto è vibrante e presente, la tradizione
secolare non è rievocata nostalgicamente ma magicamente rivitalizzata.
Foto di Valeria Pierini |
Il
cervo-caprone è riuscito con il suo sortilegio a trascinare i presenti nella
celebrazione collettiva di un suono fatto di carne e di terra, in un
coinvolgimento inevitabile nella musica più sporca e insieme più evocativa che
questo uomo baffuto ci potesse elargire.
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