martedì 4 dicembre 2012

THE BLUES AGAINST YOUTH @T Trane, Perugia, 30/11/2012


Foto di Valeria Pierini

Cosa possono fare due mani, una gamba, un’ugola polverosa e un cervo-caprone.
Gianni ovvero TBAY si incunea tra i vinili schierati in un orario decisamente inusuale per le performance italiche, a testimonianza che il crepuscolo invernale è il momento perfetto per fare selvaggio handclapping sul suo country imbrattato di blues.
Quando adagio il mio posteriore sul pavimento e la schiena sullo scaffale della black music, reparto compilation, la sensazione è di trovarmi al famigerato crocicchio di Robert Johnson, al cui cospetto non si presenta però il diavolo ma Merle Haggard già uscito da San Quentin. L’occasione è la presentazione del nuovo EP, ma tutto suona classico e familiare e insieme immediatamente trascinante.
La sei corde si impegna in fraseggi sorprendentemente bianchi, mettendo in gioco sonorità graffianti e scarne degne di un Dave Alvin rivestito di umiltà e schiettezza, evidenti non solo nell’approccio umano ma soprattutto nell’attitudine musicale. Viene la tentazione di chiamare in causa l’abusata definizione di “musica di frontiera”, fuorviante e riduttiva nel caso di TBAY, a meno che non si intenda individuare un’inedita frontiera tra la piantagione di cotone e la prateria.

Foto di Valeria Pierini
L’entusiasmo che regala il Nostro si deve soprattutto alla capacità di conciliare l’enormità della tradizione americana nei suoi episodi migliori e più emblematici con l’urgenza espressiva che ti aspetteresti dalle presunte avanguardie, nella lotta indefessa di tutto ciò che è “root” nella sua accezione migliore per riaffermarsi come vitale e pulsante, ben oltre l’eredità dei grandi padri fondatori. E la resurrezione del songwriting tradizionale passa inevitabilmente per l’esecuzione, per l’impegno del musicista in un’ora debordante; senza polvere, sudore e fiumi di alcol, senza il contributo del pubblico piacevolmente sguaiato e degno di un saloon si rimarrebbe ancorati al revival di maniera. Ma è un rischio che con TBAY non si corre: dalla scrittura alla performance, tutto è vibrante e presente, la tradizione secolare non è rievocata nostalgicamente ma magicamente rivitalizzata. 
Il cervo-caprone è riuscito con il suo sortilegio a trascinare i presenti nella celebrazione collettiva di un suono fatto di carne e di terra, in un coinvolgimento inevitabile nella musica più sporca e insieme più evocativa che questo uomo baffuto ci potesse elargire.



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