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Foto di Valeria Pierini |
Abitualmente accolgo con una certa ostilità le doviziose riflessioni sui massimi sistemi che invadono le pagine deputate ad accogliere asciutte analisi di dischi o live; con sonore sbuffate scorro febbrilmente le righe in cerca di indizi che mi dicano qualcosa su come suona quel disco o quella band. Ma l’esibizione dei Death of Anna Karina, posta a suggello dell’intrigante
Sons of Vesta Fest, si offre, sin troppo esplicitamente, come sollecitazione ineludibile: mi sfida a indagare gli sforzi e gli esiti di quanti si cimentino nell’incastrare il nostro idioma neolatino sulle sonorità più sferzanti tradizionalmente proprie della lingua d’Albione.
L’impellenza della questione, inaugurata di fronte allo specchio del bagno con la fida sodale portatrice di obiettivo, si impone ai miei occhi e orecchie, meravigliosamente saturi della multiforme varietà espresiva dispiegatasi nei due giorni giunti all’epilogo. Il festival ha dato il colpo di grazia alla mia ottusa esterofilia musicale, confermando quanto sospetto da qualche anno: l’ingenua rincorsa alla next big thing d’Oltremanica o del Nuovo Mondo depista la scoperta dei laboriosi e fecondi esperimenti che affollano i nostri palchi, come un esercito risoluto e discreto che nell’ombra appronta un’inesorabile Lunga Marcia verso la definitiva uscita dallo stato di minorità musicale. L’attacco finale sferrato dai Death of Anna Karina si colloca come momento paradigmatico del passaggio dalla sudditanza vigente in questa sorta di Commonwealth musicale all’emancipazione, segnato dalla recente virata della band verso la scrittura in italiano.
La lingua madre costringe ad esporre e mettere a nudo quanto mascherato e protetto dal filtro rassicurante di un’espressione codificata quale quella in inglese; apparentemente più immediata nella fruizione e ritenuta dotata di maggiore potenza comunicativa, in quanto inserita in una tradizione e in una storia di cui il nostro paese sembra mutilo, è un percorso forse più semplice ma alla lunga castrante. I coraggiosi tentativi di riappropriarsi della dimensione linguistica spontaneamente padroneggiata hanno il merito di aspirare a conferire dignità all’italiano, vagliando le possibilità, nei suoni e nell’interpretazione innanzitutto, concesse solo dalla propria lingua madre. Per l’assenza di codici estetici di riferimento, l’operazione è temeraria: è quindi un procedere per esperimenti, portare allo scoperto limiti e confessare incompiutezze.
Il compito di scomporre analiticamente l’argomento relega in secondo piano la performance, nonostante l’aggressività e la compattezza sonora: graffianti e affilati, i Death of Anna Karina incombono sugli astanti con un noise convulso e dilaniato, che procede incalzante sul tappeto sonoro di tastiere dense e minacciose. La prova di Andrea Ghiacci sancisce l’autenticità degli intenti nell’interpretazione di liriche che, per una drammaticità a tratti eccessiva, potrebbero sfiorare la retorica: si offre come prostrato da una tensione disperata e costante, serbata e rinchiusa e d’improvviso espulsa contro di noi.
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Foto di Valeria Pierini |
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