Foto by Valeria Pierini |
Sono in uno stato di euforico
stordimento, indotto dalla conversazione pomeridiana con Alan Sparhawk e Mimi
Parker: generalmente i musicisti, come mi confidò tempo fa uno di loro, sono
egocentrici malati, insicuri e falsi; è scoperta inestimabile trovare il più
evidente carisma d’artista congiunto con l’intelligenza esistenziale più
limpida e con un’apertura umana quasi imbarazzante. Forse sono la
consapevolezza dell’eccezionalità di questo incontro e l’esaltazione emotiva a
condizionare il turbamento eccitato con cui arrivo ben prima del concerto. E
non so se sono i miei nervi a pezzi o l’estasi della musica dei Low ma, dopo
appena dieci minuti dall’inizio, la voce di Mimi Parker che sgorga in Holy
Ghost apre anche in me uno squarcio di
commozione: sono sopraffatta da un pianto incontrollato, e continuerò quasi
ininterrottamente per i novanta minuti successivi.
Non ricordo nemmeno di avere un
mondo intorno, mentre il suono satura la sala con vigorosa purezza: ogni
vibrazione ha un’intensità autonoma, ben più potente dell’incisione sul disco;
la naturalezza con cui i semplici accordi di chitarra si sciolgono
sull’intreccio morbido del basso e sulle percussioni minimali è qualcosa di
perfettamente compiuto, che esclude l’esigenza di aggiungere o scomporre. Mimi,
immobile appena defilata dietro ai due uomini, innalza il livello del pathos
con la sua sola vocalità cangiante e insieme semplicissima, capace di innescare
deflagrazioni emozionali con il più lineare movimento d’aria. Venata di
amarezza e rimpianto, la voce di Alan replica intaccando la purezza canora
della moglie, come quando interviene con micro-distorsioni a disturbare
l’apertura campestre del suo stile chitarristico; i suoi movimenti all’unisono
con ciascuna nota sembrano scaturire dalle assi del palco, come se la musica
trasmessa dai piedi lo attraversasse e lo scuotesse, quasi fatto della sua
stessa sostanza. Immagino che sia un ottimo ballerino.
Foto by Valeria Pierini |
Dopo aver attinto a piene mani
dal dittico "C’mon" e "The Invisible
Way", i cui episodi si allineano per
straordinaria coerenza e affine attitudine, e dai predecessori, disorientano e
avvincono con la cover di Stay.
Mai avrei immaginato che un brano di Rhianna avrebbe potuto condurmi a un tale
stato di prostrazione sentimentale, tale da costringermi a segnare sul mio
taccuino, in una frenesia post-adolescenziale, i versi centrali (something
in the way you move, makes me feel like I can’t live without you).
Foto by Valeria Pierini |
Ho visto decine, forse centinaia
di concerti; sono abituata all’adrenalina che serpeggia nei live e all’empatia
con cui i migliori musicisti sanno avvincere chi ascolta. Ma raramente ho
percepito la sensazione di essere immersa in un momento umanamente singolare e
di un’intensità esistenziale così tangibile.
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