venerdì 28 settembre 2012

Fu Manchu @ Rock'n'Roll Romagnano Sesia 22/09/12

C'è stato un periodo in cui beccare in tv il video di Feel Good Hit Of The Summer dei Qotsa (rigorosamente oltre l'1 di notte) provocava in me un'unica reazione: cambiare canale. Poi venne Songs For The Deaf, e come molti cominciai a ripescare dal passato di Homme e soci e, non accontentandomi, a scavare nel vasto mondo allora a me sconosciuto dello stoner (a differenza di tutti quelli che si accontentano di ballare ancora ora “No One Knows” nelle vetuste discoteche rock, anime semplici che in fondo un po' invidio), dandomi intanto del coglione per aver ignorato pochi anni prima una delle canzoni più belle dei Queens Of The Stone Age. Così arrivai ai Kyuss, ai Monster Magnet, ma solo anni dopo arrivai grazie all'album We Must Obey ai Fu Manchu, che in verità non ho mai seguito granchè forse perchè mi han sempre dato l'impressione di essere gli Ac/Dc dello stoner portando avanti all'infinito un sound che non ha mai avuto grandi evoluzioni negli anni. Quando però ti capitano a suonare a pochi chilometri da casa e pure in buona compagnia non puoi esimerti dall'andare a rendere omaggio ad una parte della mia personale triade dello stoner, ed ecco perchè sono finito al Rock'n'Roll di Romagnano Sesia a farmi devastare le orecchie. In senso letterale.
Già i primi a solcare il palco, i Mexican Chili Funeral Party, fanno capire che non è serata per palati fini: qualche accordo di un basso cavernoso a volume devastante apre l'esibizione della band, che nell'intenzione e soprattutto nella voce dimostra di scavare nel solco dei Kyuss, ma pur senza inventare niente si lascia apprezzare grazie ad una sezione ritmica potente ed incisiva e a due chitarre che si sincronizzano in maniera perfetta. La voce è un po' bassa, ma una questione di volumi non può certo pregiudicare la buona prova anche da questo punto di vista: non so come siano su disco, ma i Mexican Chili Funeral Party dal vivo sono stati decisamente una grossa e piacevole sorpresa.
Secondi a salire sul palco sono stati gli Ojm, e in questo caso sapevo cosa aspettarmi avendo recensito ed apprezzato due loro dischi: David Martin alla voce conferma quanto di buono udito su album e tiene il palco come solo un ottimo frontman sa fare, soprattutto quando si contorce indiavolato sulle note dell'intensa “Oceans Hearts”, ma il basso a volume ridotto e la chitarra di contro troppo alta e squillante (e in qualche caso fuori fase, soprattutto nell'attacco di alcuni assoli) pregiudicano musicalmente la prova di una band da cui mi aspettavo un po' di più. Sempre bello comunque sentire pezzi come “Cocksucker” e la conclusiva “Give Me The Money”, peccato per questi piccoli problemi probabilmente tecnici (non sentire un cazzo sul palco in cui si suona è un problema che ho vissuto troppe volte in prima persona).
Finita l'abbuffata di gruppi nostrani tocca ai The Shrine salire sul palco, e se il look capellone è da stereotipo stoner alla prima maniera (il cantante e chitarrista sembra un clone di Brant Bjork) la musica è invece una sorpresa: potente ma senza particolari invenzioni nei suoni, le canzoni della band che i Fu Manchu si sono portati dagli States si fanno apprezzare invece per i continui cambi di ritmo, raramente forzati e che lasciano spesso spiazzati, almeno quanto le facce improbabili che fa il bassista quando la si vede attraverso i capelli. Un set intenso che cattura l'attenzione di una sala sempre più piena, pronta per il piatto forte.
Con questo tour i Fu Manchu festeggiano i 15 anni dall'uscita di The Action Is Go. Il perchè festeggino l'uscita del quarto album e non abbiano invece festeggiato l'uscita del primo o l'anniversario di fondazione della band è una cosa che non so spiegarmi, ma quando in sala entrano Scott Hill e soci e attaccano potentissimi “Evil Eye” della cosa non me ne frega poi più molto. Come nei piani la band si mette senza sosta a suonare tutti i pezzi dell'album, con qualche pausa giusto per permettere a Scott di cambiare chitarra e mostrarne una tamarrissima trasparente, e così scorrono le varie “Burning Road”, “Anodizer”, “Hogwash” e via di questo passo, mentre la gente sotto il palco poga, canta e fa stage diving come ai bei tempi. Scott non si risparmia e si concede spesso al pubblico avvicinandosi alla gente abbastanza da fargli toccare la chitarra, una chitarra che col passare dei pezzi continua ad alzarsi di volume arrivando a livelli tali che nella mia personale classifica dei concerti più spaccatimpani gli Ufomammut vengono superati in scioltezza. La band dimostra anche un buon rapporto col pubblico quando Bob Balch all'altra chitarra si lascia fotografare assieme ad un fan, prima che lo stesso venga fatto scendere assieme ad un compare vagamente alticcio dal barbutissimo membro della crew del gruppo. Terminata con “Nothing Done” la carrellata dei brani dell'album i 4 si prendono una brevissima pausa prima di tornare e inaugurare lo spazio 'pezzo a richiesta': se il pubblico viene accontentato con l'acclamatissima “King Of The Road” penso che in pochi avessero inneggiato alla conclusiva “Godzilla” (“California Corssing” era stata sicuramente una scelta molto più gettonata giusto per dirne una), ma con la sua potenza è stata la degna conclusione di un concerto che finisce col volume ancora più in alto, e con la minima delusione da parte mia dell'illusorio incipit di “Sensei Vs Sensei” accennato dal basso senza che la stessa fosse poi eseguita. Lo stoner non sarà più un genere sulla cresta dell'onda, ma serate come questa ti mettono in pace con la musica tutta: complimenti a tutte le band, che leggano oppure no queste poco professionali 'impressioni di settembre'.


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