C'è stato un periodo in cui beccare in tv il video di Feel Good Hit Of The Summer dei Qotsa (rigorosamente oltre l'1 di notte) provocava in me un'unica reazione: cambiare canale. Poi venne Songs For The Deaf, e come molti cominciai a ripescare dal passato di Homme e soci e, non accontentandomi, a scavare nel vasto mondo allora a me sconosciuto dello stoner (a differenza di tutti quelli che si accontentano di ballare ancora ora “No One Knows” nelle vetuste discoteche rock, anime semplici che in fondo un po' invidio), dandomi intanto del coglione per aver ignorato pochi anni prima una delle canzoni più belle dei Queens Of The Stone Age. Così arrivai ai Kyuss, ai Monster Magnet, ma solo anni dopo arrivai grazie all'album We Must Obey ai Fu Manchu, che in verità non ho mai seguito granchè forse perchè mi han sempre dato l'impressione di essere gli Ac/Dc dello stoner portando avanti all'infinito un sound che non ha mai avuto grandi evoluzioni negli anni. Quando però ti capitano a suonare a pochi chilometri da casa e pure in buona compagnia non puoi esimerti dall'andare a rendere omaggio ad una parte della mia personale triade dello stoner, ed ecco perchè sono finito al Rock'n'Roll di Romagnano Sesia a farmi devastare le orecchie. In senso letterale.
Già i primi a solcare il
palco, i Mexican Chili Funeral Party, fanno capire che non è serata
per palati fini: qualche accordo di un basso cavernoso a volume
devastante apre l'esibizione della band, che nell'intenzione e
soprattutto nella voce dimostra di scavare nel solco dei Kyuss, ma
pur senza inventare niente si lascia apprezzare grazie ad una sezione
ritmica potente ed incisiva e a due chitarre che si sincronizzano in
maniera perfetta. La voce è un po' bassa, ma una questione di volumi
non può certo pregiudicare la buona prova anche da questo punto di
vista: non so come siano su disco, ma i Mexican Chili Funeral Party
dal vivo sono stati decisamente una grossa e piacevole sorpresa.
Secondi a salire sul
palco sono stati gli Ojm, e in questo caso sapevo cosa aspettarmi
avendo recensito ed apprezzato due loro dischi: David Martin alla
voce conferma quanto di buono udito su album e tiene il palco come
solo un ottimo frontman sa fare, soprattutto quando si contorce
indiavolato sulle note dell'intensa “Oceans Hearts”, ma il basso
a volume ridotto e la chitarra di contro troppo alta e squillante (e
in qualche caso fuori fase, soprattutto nell'attacco di alcuni
assoli) pregiudicano musicalmente la prova di una band da cui mi
aspettavo un po' di più. Sempre bello comunque sentire pezzi come
“Cocksucker” e la conclusiva “Give Me The Money”, peccato per
questi piccoli problemi probabilmente tecnici (non sentire un cazzo
sul palco in cui si suona è un problema che ho vissuto troppe volte
in prima persona).
Finita l'abbuffata di
gruppi nostrani tocca ai The Shrine salire sul palco, e se il look
capellone è da stereotipo stoner alla prima maniera (il cantante e
chitarrista sembra un clone di Brant Bjork) la musica è invece una
sorpresa: potente ma senza particolari invenzioni nei suoni, le
canzoni della band che i Fu Manchu si sono portati dagli States si
fanno apprezzare invece per i continui cambi di ritmo, raramente
forzati e che lasciano spesso spiazzati, almeno quanto le facce
improbabili che fa il bassista quando la si vede attraverso i
capelli. Un set intenso che cattura l'attenzione di una sala sempre
più piena, pronta per il piatto forte.
Con questo tour i Fu
Manchu festeggiano i 15 anni dall'uscita di The Action Is Go. Il
perchè festeggino l'uscita del quarto album e non abbiano invece
festeggiato l'uscita del primo o l'anniversario di fondazione della
band è una cosa che non so spiegarmi, ma quando in sala entrano
Scott Hill e soci e attaccano potentissimi “Evil Eye” della cosa
non me ne frega poi più molto. Come nei piani la band si mette senza
sosta a suonare tutti i pezzi dell'album, con qualche pausa giusto
per permettere a Scott di cambiare chitarra e mostrarne una
tamarrissima trasparente, e così scorrono le varie “Burning Road”,
“Anodizer”, “Hogwash” e via di questo passo, mentre la gente
sotto il palco poga, canta e fa stage diving come ai bei tempi. Scott
non si risparmia e si concede spesso al pubblico avvicinandosi alla
gente abbastanza da fargli toccare la chitarra, una chitarra che col
passare dei pezzi continua ad alzarsi di volume arrivando a livelli
tali che nella mia personale classifica dei concerti più
spaccatimpani gli Ufomammut vengono superati in scioltezza. La band
dimostra anche un buon rapporto col pubblico quando Bob Balch
all'altra chitarra si lascia fotografare assieme ad un fan, prima che
lo stesso venga fatto scendere assieme ad un compare vagamente
alticcio dal barbutissimo membro della crew del gruppo. Terminata con
“Nothing Done” la carrellata dei brani dell'album i 4 si prendono
una brevissima pausa prima di tornare e inaugurare lo spazio 'pezzo a
richiesta': se il pubblico viene accontentato con l'acclamatissima
“King Of The Road” penso che in pochi avessero inneggiato alla
conclusiva “Godzilla” (“California Corssing” era stata
sicuramente una scelta molto più gettonata giusto per dirne una), ma
con la sua potenza è stata la degna conclusione di un concerto che
finisce col volume ancora più in alto, e con la minima delusione da
parte mia dell'illusorio incipit di “Sensei Vs Sensei” accennato
dal basso senza che la stessa fosse poi eseguita. Lo stoner non sarà
più un genere sulla cresta dell'onda, ma serate come questa ti
mettono in pace con la musica tutta: complimenti a tutte le band, che
leggano oppure no queste poco professionali 'impressioni di
settembre'.
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